Quando Facebook mi ha proposto, tra un post di gattini e una frase di autoaiuto (sul perché poi la gente condivida queste cose non voglio entrarci) l’evento organizzato a Milano da Slow Food Editore per la prima presentazione del libro Che mondo sarebbe di Cinzia Scaffidi, ho deciso di partecipare. Mi incuriosiva il tema: come sarebbe il mondo se fosse come descritto dalle pubblicità di cibo?
Alla presentazione del libro hanno partecipato, insieme all’autrice, Lella Costa e Linda Ovena e, devo dire, è stata una presentazione divertente e convincete, al punto che sono uscito dalla libreria con una bella copia del libro. Autografata, si intende.
Ho letto il libro in pochi giorni, si tratta davvero di una lettura leggera e fluida. Non aspettatevi quindi un polpettone filosofico o di analisi sociologica sulla comunicazione food, perché l’autrice ha avuto la brillante idea di affrontare un tema che bene o male ci tocca tutti, con un’arma vincente: l’ironia.
E questo è spesso il modo migliore di affrontare la vita, soprattutto in un’epoca in cu non solo tutti vogliono dire la loro su tutto, ma soprattutto desiderano ardentemente fare polemica su tutto, anche dove una risata sarebbe la scelta migliore.
Per parlarvi di questo libro non voglio farvi una recensione nel senso più classico del termine, ma voglio condividere con voi alcuni spunti di riflessione che la lettura mi ha suggerito.
Noi siamo continuamente bombardati da pubblicità di ogni tipo, comprese quelle alimentari che, di fatto, hanno il solo scopo di vendere un prodotto. Ricordatevi bene questa cosa: le pubblicità sono pagate dalle aziende per promuovere i loro prodotti. Nel libro l’autrice rimarca questo concetto più volte. Un’ovvietà? Forse, ma alla fine noi alle pubblicità crediamo, anche solo per sfinimento.
Come giustamente è scritto nel libro le pubblicità non mentono, non possono farlo per legge. Ma nessuno vieta alle aziende di raccontare solo una parte di verità, quella che vogliamo sentire. Spesso noi non ce ne rendiamo nemmeno conto ma assorbiamo messaggi che, se valutati con freddezza e razionalità, sono quanto meno opinabili.
Vi faccio alcuni esempi che potete trovare nel libro Che mondo sarebbe e che mi hanno davvero fatto riflettere.
Parliamo di brioche, in modo particolare di cornetti – o croissant – che dir si voglia. Sapete, quelli che in tv sono buoni perché sempre soffici e morbidi. Questa morbidezza indeterminata viene venduta come un vanto, come un pregio. Ma è davvero così?
Se ci pensate un cornetto vero, diciamo quello bello burroso di pasticceria, non è morbido affatto: è croccante all’esterno, al punto da sgretolarsi al primo morso, e molto arioso e leggero all’interno. Di sicuro non ha la consistenza di un panino al latte.
E le focaccine confezionate o il pane confezionato, anch’essi morbidi in eterno? Avete mai tenuto in casa per due giorni il pane fresco? Beh, avete capito.
Ovviamente nessuno si aspetta che un’azienda ci venda una brioche confezionata che diventa rafferma nella confezione, ci mancherebbe. La cosa che però mi ha fatto riflettere è che spesso una pubblicità ci vende come pregio quello che, di fatto, è un limite di fabbrica.
Tra gli altri aspetti toccati in Che mondo sarebbe ci sono: la famiglia, spesso descritta nelle pubblicità food in modo assurdo e anacronistico; i personaggi famosi che si prestano a registrare spot (avete mai riflettuto sulla differenza del messaggio che passa se il personaggio famoso recita una parte o interpreta se stesso?); le sottili tecniche persuasive usate dai copy, come il risparmio di soldi e tempo, fino alla capacità di suscitare dubbi e sensi di colpa quando si parla di alimentazione dei bambini e molto altro.
Un altro aspetto affrontato da Cinzia Scaffidi che voglio esporvi brevemente perché mi ha particolarmente colpito è il rapporto cibo-tecnologia.
Avete mai notato che, mentre le aziende non food spesso si vantano dei progressi tecnologici raggiunti, le aziende food continuano a fare leva sul messaggio che “tutto è fatto come una volta“?
Ora, alzi la mano a chi crede che le lasagne confezionate vengono fatte da schiere di nonnine armate di matterello o della macchinetta per la sfoglia nota ai più come “nonna papera”. Nessuno, penso. Nessuno, spero.
Però nelle pubblicità di cibo non si vedono (quasi) mai fabbriche, ma solo mugnai, lattai e sterminati campi verdi con otto vacche da latte al pascolo che da sole riforniscono l’intero globo. Secondo voi perché?
Le pubblicità sono ovunque ormai, non solo in tv, e bisogna davvero imparare a leggere fra le righe di quello che raccontano, sviluppare quell’occhio critico necessario per rendersi conto che ok, non ci stanno mentendo, ma cosa non mi stanno dicendo? Leggere le etichette ad esempio, aiuta moltissimo a rispondere a questa domanda.
Voglio approfittare per condividere un aneddoto: qualche giorno fa mi è caduto l’occhio su una confezione di biscotti, una di quelle che vogliono avere l’aspetto più artigianale, e l’etichetta citava: “biscotti senza frumento, latte, uova, zuccheri aggiunti” – insomma, senza un tubo, come la moda del momento richiede e subito dopo continuava l’elenco con un “con edulcoranti“. Perché alla fine, per essere dolci, qualcosa andrà pure usato. Poi volti la confezione e scopri che se ne mangi uno di troppo rischi di passare la giornata in bagno.
Che mondo sarebbe di Cinzia Scaffidi è un libro interessante, semplice nel suo modo di esporre i fatti, ma al contempo capace di far riflettere un po’ sulla comunicazione legata al mondo alimentare.
Il tutto è condito da una gradevole ironia che a tratti fa ripensare a pubblicità nuove o vecchie rubando un sorriso.
Leggendo questo libro è inevitabile il momento amarcord e non nego di essere andato su YouTube a cercare qualche vecchio spot particolarmente assurdo per farmi due risate.
Io vi consiglio Che mondo sarebbe di Cinzia Scaffidi se avete voglia di dare una piccola scossa al vostro modo di guardare le pubblicità di cibo (ma possiamo dire pubblicità in generale) e cominciare a sviluppare un senso critico fondamentale quando si parla di alimentazione. Attenzione, senza mai scordare l’ironia: perché oggi c’è la tendenza a essere fin troppo critici e assolutisti, col rischio di cadere dalla padella alla brace.
L’ironia è fondamentale perché a volte le pubblicità sono così eccessive e surreali che ci si può solo ridere sopra. Una delle mie preferite? Una serie di vecchi spot di una nota carne in scatola. Chi di voi, almeno una volta, di fronte alla ragazza affamata che torna da scuola o al centauro grande e grosso che, rientrati a casa e aperto il frigo, di fronte a un piatto con un bel cilindro di carne in gelatina su una foglia di insalata alzano sognanti gli occhi al cielo dicendo “grazie mamma!” non ha pensato (o urlato): ma grazie de che?! Dai, non mentite.